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Pensioni e futuro: si dovrà lavorare più a lungo e le pensioni saranno sempre più basse

Il nostro futuro: ecco perché si dovrà lavorare di più e le pensioni saranno sempre più basse

Al lavoro almeno fino a 70 anni con una pensione inferiore del 25% rispetto a quella che percepisce chi è nato nel 1945 e oggi ha 70 anni. A tracciare il futuro pensionistico di milioni di persone era stato, un anno fa, lo stesso Tito Boeri, presidente dell’Inps, che ha confermato una percezione ormai diffusa: si resterà al lavoro sempre più tardi e si otterranno pensioni più ridotte rispetto al passato.
In un Paese dove il welfare state è sempre stato molto solido, c’è da chiedersi: come siamo arrivati fino a qui?

Come funziona l’Inps

Prima di addentrarci in un excursus storico che ci aiuterà a capire come mai siamo arrivati a questo punto , è importante chiarire come funziona l’Istituto di previdenza nazionale, una delle casse di previdenza più imponenti d’Europa.
Sostanzialmente il meccanismo è quello dell’equilibrio tra entrate e uscite.
Le entrate sono rappresentate dai contributi versati dai lavoratori e dai trasferimenti statali. Le uscite sono le pensioni più altre prestazioni assistenziali. Il sistema è in equilibrio se entrate ed uscite si equivalgono. Il sistema salta se i contributi diminuiscono, perché cala l’occupazione o perché le dinamiche demografiche portano a natalità sempre più bassa, o se la spesa per le pensioni aumenta perché, ad esempio, si allunga l’aspettativa di vita.
In questi casi non si può intervenire molto sul lato delle entrate, legato alle dinamiche occupazionali del libero mercato. Lo Stato può, invece, agire sul fronte delle uscite, ridimensionando gli importi delle pensioni ed allungando l’età pensionabile.

La storia dell’Inps può così essere sintetizzata nella costante ricerca di far convivere l’esigenza dello Stato di far quadrare i conti con le richieste dei lavoratori che rivendicano il diritto a godere di assegni dignitosi, dopo una vita di lavoro.

1898 - La nascita della Cassa nazionale di previdenza

La storia dell’Inps inizia a fine 1800, con la Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Aveva poco in comune con l’istituzione che conosciamo oggi, poiché si trattava per lo più di un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo libero degli imprenditori.

1919 - L’assicurazione diventa obbligatoria

La Prima Guerra Mondiale è finita da poco, lasciando sul terreno una società da ricostruire. Per la Cassa, che nel frattempo ha raggiunto i 700.000 iscritti ed i 20.000 pensionati, è un anno di svolta, perché l’assicurazione diventa obbligatoria. Parte così il percorso di un ente che ha l’intento di tutelare i lavoratori da tutto ciò che può mettere a rischio il reddito individuale e familiare.

1933 - Nasce l’Inps

Quest’anno è da ricordare perché la Cassa nazionale di previdenza cambia nome diventando Istituto nazionale di previdenza sociale.

1969 - Riforma Brodolini: si passa al sistema retributivo

Siamo nel pieno del boom economico italiano. Quest’anno segna una svolta, perché l’Inps assume un ruolo nuovo e si introducono novità le cui conseguenze hanno ripercussioni ancora oggi.
La principale novità è il passaggio dal metodo di calcolo contributivo a quello retributivo. In pratica, fino a questo momento il pensionato riceveva un vitalizio sulla base di quello che aveva versato. Ora le pensioni sono calcolate sulla base del reddito percepito e l’assegno vale un 80% delle ultime retribuzioni.
Non è solo un cambio di metodo di calcolo, ma alla base c’è un nuovo approccio alla previdenza. Si esce dalla logica dell’assicurazione, e si assume l’idea per cui il pubblico, nella figura dell’Inps, si deve prendere cura del futuro dei lavoratori garantendo loro lo stesso tenore di vita conquistato dopo anni di sacrifici, indipendentemente dai contributi versati.
Dal punto di vista della spesa pubblica, è l’inizio della crescita vorticosa, perché viene meno la correlazione tra contributi versati e pensioni percepite. Come dicevamo, siamo negli anni del boom, gli occupati sono più dei pensionati e non si pensa che le cose possano cambiare.

1973 - Arrivano le baby pensioni

Le baby pensioni sono ormai un simbolo degli sprechi d’Italia. Nell’anno dello shock petrolifero e delle domeniche a piedi, questo provvedimento punta a risollevare il consenso al governo in carica. Le lavoratrici possono andare in pensione dopo 14 anni e mezzo, i dipendenti pubblici dopo 20 anni, i dipendenti privati dopo 25. I costi probabilmente sembrano essere poca cosa per un’economia che cresce ( il rapporto debito/Pil è al 30%, oggi siamo al 128%). Dovranno passare 40 anni per abolire le baby pensioni che si stima siano costate alle casse pubbliche 164 miliardi.

1975 - Pensioni agganciate ai salari

L’importo delle pensioni viene agganciato non più solo ai prezzi, ma anche ai salari. L’obiettivo è tutelare il valore reale delle pensioni. Un vantaggio per i pensionati, ma un aggravio molto pesante sui conti pubblici, perché gli importi medi dei vitalizi, per effetto della perequazione, crescono senza che sia correlato un aumento delle entrate nelle casse dell’Inps.

1982 - Si inizia a parlare di tagli

L’Inps in pochi decenni è diventato un colosso, che incassa contributi ed eroga pensioni e prestazioni per invalidità. La spesa pensionistica è passata da meno del 10% sul Pil del 1975 a circa il 13% dei primi anni ‘80.
La mancata correlazione tra contributi versati e pensioni percepite, l’età pensionabile bassa (c’è chi è andato in pensione a 30 anni), iniziano a far scricchiolare l’equilibrio tra entrate e uscite.

La commissione di studio presieduta da Onorato Castellino, mentore del futuro ministro del lavoro Elsa Fornero, evidenzia alcuni punti controversi del sistema pensionistico. Sarebbero da rivedere l’età pensionabile, l’indicizzazione, il collegamento tra quanto versato e quanto percepito, la cumulabilità tra pensioni ed altri redditi. Seguiranno progetti di riforma che finiranno nel nulla, perché toccare le pensioni ha un costo politico troppo elevato.

1992 - La riforma Amato

Ci vuole il pesante clima creato da Tangentopoli a spingere a passare dalle proposte di riforma delle pensioni ai fatti. E’ l’anno della riforma Amato, in gioco c’è la sostenibilità del sistema. Parte così l’innalzamento dell’età pensionabile, da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini portando la contribuzione minima da 15 a 20 anni. Per la prima volte compare il divieto parziale di cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo.

1992 - Nasce la previdenza complementare

A fianco della previdenza pubblica, fa la sua comparsa quella complementare, che deve integrare la tutela dell’Inps con forme di assicurazione a capitalizzazione di tipo privatistico. Con il decreto legislativo 124/1993 nascono i Fondi pensione ad adesione collettiva negoziali e aperti, in cui il lavoratore può accantonare una quota dei propri guadagni per maturare una pensione integrativa rispetto a quanto erogato dagli enti previdenziali. Viene istituita la Covip, per vigilare sul corretto funzionamento dei fondi pensione.

1995 - Riforma Dini delle pensioni

È un nuovo anno di svolta. La vita media si allunga, siamo ormai lontani dagli anni del boom economico. Si fa un passo fondamentale per il contenimento della spesa previdenziale: si passa dal sistema di calcolo retributivo delle pensioni a quello contributivo per quanti abbiano iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996. E’ un cambiamento epocale, perché cambia nuovamente l’approccio alla tutela dei cittadini: il focus si sposta dai pensionati, a cui non si garantisce più il mantenimento del tenore di vita acquisito nell’età lavorativa, ai conti dell’Inps, aggravati da decenni di spese a cui non sono corrisposte le stesse entrate.
Di fatto, però, i contributi versati non saranno accantonati e restituiti al lavoratore una volta che andrà in pensione, ma continueranno a essere usati per pagare i vitalizi erogati nel presente.
Viene rivista l’età pensionabile; le pensioni sono ormai agganciate solo all’inflazione, non più agli stipendi.

1995 - Previdenza complementare

Con la riforma Dini, si profila una categoria di pensionati più poveri rispetto ai predecessori. Per questo, nella riforma si torna a parlare di previdenza complementare, con la rimozione di alcuni ostacoli che ne impediscono l’avvio.

1998 - Riforma Prodi

L’Italia deve entrare in Europa e per mettere i conti a posto e garantire stabilità al sistema bisogna toccare anche il capitolo pensioni. Sono inaspriti i requisiti di accesso alla pensione di anzianità; viene bloccata la rivalutazione dei trattamenti superiori a 5 volte il minimo.

2000 - Novità per la previdenza complementare

La previdenza complementare ancora non decolla. Per incentivarla, viene migliorato il trattamento fiscale per chi aderisce a un Fondo pensione e sono previste nuove opportunità per chi si iscrive ad un Fondo pensione aperto o a un Piano individuale pensionistico (cosiddetto PIP).

2005 - La disciplina della previdenza complementare

Il D.Lgs. 252/2005 riforma il settore, ma la previdenza complementare è ancora ferma. Gli effetti del passaggio dal metodo di calcolo retributivo al contributivo ancora non sono tangibili, perché siamo in un periodo di transizione in cui a molti lavoratori si applica ancora il vecchio metodo di calcolo o, al più, un sistema misto.

2011 - Riforma Fornero

Arriviamo al 2011 dopo una serie di interventi che hanno innalzato l’età pensionabile e rivisto parzialmente il sistema delle pensioni. Anche in questo caso, a dare impulso ad una riforma che ha pesanti ripercussioni sociali, è il contesto nazionale ed internazionale. L’Italia è sotto attacco, lo spread è alle stelle, il governo è in crisi.

La riforma Fornero mette una pietra tombale e segna il destino di milioni di lavoratori: non si scappa dal metodo contributivo e l’età pensionabile sarà sempre più alta, agganciata all’aspettativa di vita. 
La Ragioneria di Stato calcola che la pensione, con il metodo contributivo, sarà pari, in media, al 55% dei redditi da lavoro. Si chiude così il cerchio aperto con le riforme Amato e soprattutto Dini.

2012 - L’Inpdap mette a rischio l’Inps

I conti dell’Inps vengono messi a dura priva dall’accorpamento dell’Inpdap, l’ex cassa dei dipendenti pubblici, che porta in eredità un buco da 6 miliardi di euro. Nasce così il SuperInps, ma si teme per la sua stabilità.

2016 - L’Ape: in pensione prima con il prestito bancario

Arriviamo all’attualità. Ultimo atto della vicenda pensioni è l’Anticipo pensionistico, che è un po’ l’emblema dei tanti tentativi di mitigare gli effetti della riforma Fornero delle pensioni. Con le salvaguardie, la proroga di Opzione Donna, e, appunto, l’anticipo, si cerca di inserire un po’ di flessibilità nelle maglie della previdenza, per quei lavoratori che, all’improvviso, hanno visto allungarsi l’età pensionabile anche di diversi anni. Per accedere prima alla pensione, però, bisogna rinunciare a parte del vitalizio. Una condizione sine qua non, per mantenere stabile il sistema: è ormai chiaro che il sistema previdenziale conosciuto in passato, quando si poteva contare su assegni slegati dai contributi versati, è lontano anni luceg.

Oggi - Il bilancio Inps

Ritorniamo alle previsioni sul futuro previdenziale. Rispetto ai loro genitori, i giovani lavoreranno sempre più a lungo e potranno contare su pensioni più risicate, perché con il calcolo contributivo tutto fa media: periodi di disoccupazione, carriere lavorative caratterizzate da stop and go, stipendi bassi.
Con questo excursus storico abbiamo visto come siamo arrivati fino a qui. C’è da chiedersi:  dopo tutte le riforme e i tagli alla spesa previdenziale, i conti dell’Inps sono in ordine?
La riforma Fornero delle pensioni è servita a mettere in sicurezza il sistema, nel medio e lungo periodo.
Tuttavia, per il 2016, il bilancio di previsione dell’Inps vede entrate inferiori alle uscite, nonostante il calo delle prestazioni erogate: le entrate contributive sono 218.653 milioni, le uscite 308.887 milioni.
Al di là dei bilancio, l’eredità più pesante di questa storia fatta di spese eccessive e di sforbiciate per mantenere il sistema in equilibrio, la si vedrà sulle pensioni del futuro, calcolate interamente con il contributivo.

Oggi - I numeri della previdenza complementare

La previdenza complementare dovrebbe essere il paracadute, per integrare il gap tra reddito da lavoro e reddito da pensione. Ma stenta a decollare.
C’è un fatto culturale, perché c’è ancora la tendenza a pensare che il welfare pubblico provvede a tutto, pensione compresa. Dall’altra parte, gli incentivi alla previdenza complementare non sono probabilmente così solidi.
Secondo i dati Covip, alla fine di settembre del 2016, la previdenza complementare conta circa 7,6 milioni di adesioni; al netto delle uscite, la crescita dall’inizio dell’anno è pari a circa 384.000 unità (5,3 per cento). Parliamo comunque di meno del 30% dei lavoratori: vuol dire che oltre il 70% è ancora scoperto.

Contenuti

Come funziona l’Inps

1898 La nascita della Cassa nazionale di previdenza

1919 L’assicurazione diventa obbligatoria

1933 Nasce l’Inps

1969 Riforma Brodolini: si passa al sistema retributivo

1973 Arrivano le baby pensioni

1975 Pensioni agganciate ai salari

1982 Si inizia a parlare di tagli

1992 La riforma Amato

1992 Nasce la previdenza complementare

1995 Riforma Dini delle pensioni

1995 Previdenza complementare

1998 Riforma Prodi

2000 Novità per la previdenza complementare

2005 La disciplina della previdenza complementare

2011 Riforma Fornero

2012 L’Inpdap mette a rischio l’Inps

2016 L’Ape: in pensione prima con il prestito bancario

Oggi Il bilancio Inps

Oggi I numeri della previdenza complementare

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