Calcolo della pensione contributiva: quanto si perde?
L’Inca Cgil ha prodotto un dossier completo con casi specifici che evidenziano come il calcolo della pensione contributiva sia sfavorevole per i lavoratori rispetto a quella retributiva.
A penalizzare i futuri pensionati sono i lavori discontinui, la precarietà, i periodi di disoccupazione, che si riflettono sull’assegno finale staccato dalle casse di previdenza. Il risultato non è solo un importo più basso, ma anche minori tutele.
Vediamo alcuni casi specifici analizzati nella ricerca.
Calcolo della pensione contributiva: qualche esempio concreto
Ripercorriamo alcuni casi concreti valutati dall’Inca Cgil. Si tratta di situazioni molto specifiche, che però possono rapportati praticamente a tutti i lavoratori.
Pensione di inabilità
Maja ha 36 anni, ha versato contributi per 356 settimane (6 anni e 10 mesi circa), come collaboratrice familiare e come disoccupata. Dopo essersi ammalata, dall’1 luglio 2010 percepisce l’assegno ordinario di invalidità di circa 50 euro lordi mensili, ma non riprende più il lavoro. Successivamente, le sue condizioni di salute si aggravano. Quindi, nel 2014 le viene riconosciuta la pensione di inabilità assoluta e permanente e con essa una maggiorazione contributiva, come se avesse effettuato i versamenti previdenziali fino a 60 anni di età. Nonostante l’incremento di 1.309 settimane, ovvero 25 anni e 2 mesi (maggiorazione convenzionale fino a 60 anni di età), l’importo del trattamento passa a circa 260 euro lordi mensili, senza avere diritto a nessun trattamento di integrazione al minimo, poiché il sistema contributivo di calcolo della pensione non lo consente.
Se avesse avuto, invece, anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, soddisfacendo i limiti reddituali personali e coniugali, le sarebbe stato garantito il trattamento minimo (501,89 euro per il 2015).ù
Reversibilità della pensione di inabilità
Un altro caso è quello della famiglia di Ramadan, nato nel 1963 e morto nel 2014. Dal 2002 al 2013 aveva lavorato come dipendente privato, poi ha percepito 77 settimane di disoccupazione. In totale, aveva un’anzianità contributiva complessiva di 508 settimane.
Dall’1 dicembre 2013, dopo una malattia, ha iniziato a percepire la pensione di inabilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa e con essa una maggiorazione contributiva come se avesse effettuato i versamenti previdenziali fino a 60 anni di età. Nonostante l’incremento di 480 settimane, ovvero 9 anni e 3 mesi (maggiorazione convenzionale fino a 60 anni di età), l’importo del trattamento è pari a circa 340 euro lordi mensili.
Dal 1° novembre 2014, gli eredi di Ramadan, ovvero la moglie ed il figlio minorenne, percepiscono la pensione di reversibilità, nella misura dell’80%, di 276,37 euro lordi mensili, a cui si aggiunge l’assegno al nucleo familiare di € 137,50 (in pratica la metà dell’importo del trattamento pensionistico).
Anche in questo secondo caso, la famiglia di Ramadan non può ricevere l’integrazione al minimo della pensione di reversibilità perché il sistema contributivo di calcolo delle pensioni non lo consente. La cosa è particolarmente grave perché mentre per la moglie di Ramadan si può ipotizzare che cerchi un lavoro, per il figlio minore l’importo della sua pensione di reversibilità è così irrisorio da pregiudicare il suo futuro.
Se Ramadan avesse avuto, invece, anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, soddisfacendo i limiti reddituali previsti, sarebbe stato garantito il trattamento minimo sulla pensione di inabilità; quella di reversibilità, riconosciuta ai superstiti, sarebbe stata integrata al minimo, comunque, senza dover rispettare alcun limite reddituale.
Dipendente pubblico
Andiamo a vedere cosa accade ai dipendenti pubblici.
Marco, classe 1978, lavora in un Ente Parco con iscrizione all’ex Inpdap dall’agosto 2008. Nel 2014 ha percepito un reddito da lavoro dipendente pari a 18.682 euro e ha svolto il servizio militare per un anno tra il 1998 e il1999.
Dal 2005 al 2008 è stato collaboratore a progetto.
Ha un’anzianità contributiva complessiva alla data del 30 settembre 2015 pari a 11 anni e 5 mesi. In caso di malattia grave, Marco potrebbe percepire solo la “pensione di inabilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa”, poiché ha già maturato i requisiti richiesti di 5 anni di contribuzione di cui 3 nell’ultimo quinquennio. Se, invece, la Commissione medica dovesse riconoscergli soltanto una inabilità inferiore (ovvero, l’incapacità a svolgere qualsiasi “proficuo lavoro”), scatterebbe immediatamente il licenziamento, senza poter avere nessuna pensione, per la quale occorrono almeno 15 anni di versamenti contributivi; e con pochissime prospettive di reimpiego.
Inoltre, se volesse trasferire i contributi ex Inpdap presso l’Inps, potrebbe farlo solo pagando oneri pesanti perché, a partire dal 2010, le ricongiunzioni sono diventate onerose ed è stata abrogata la legge n. 322/1958, che consentiva un’altra possibilità di trasferimento gratuito, con la conseguenza di non poter richiedere neanche l’assegno ordinario di invalidità.
Nel caso in cui Marco dovesse lavorare senza interruzioni gli si prospettano le seguenti possibilità di pensionamento:
- pensione anticipata – presumibilmente a 66 anni e 3 mesi di età – con 20 anni di contribuzione effettiva, sempre che riuscirà a maturare un importo pensionistico di almeno 2,8 volte quello dell’assegno sociale (impossibile col reddito che percepisce);
- pensione di vecchiaia – presumibilmente a 69 anni e 7 mesi di età, con 20 anni di contribuzione, sempreché l’importo di pensione maturato sia di almeno 1,5 volte quello dell’assegno sociale (circa 672,78 euro nel 2015).
Lavoro discontinuo
Ultimo caso che consideriamo è quello di Matteo, nato nel 1988, 27enne dipendente privato a tempo determinato, a volte anche part-time.
Ha lavorato come apprendista dal 2004 al 2010 e come dipendente privato dal 2011 ad oggi.
Ha percepito l’indennità di disoccupazione ASpI dal 16.12.2013 al 13.6.2014.
Al 30 giugno 2015, Marco non ha maturato neanche 5 anni di contribuzione e, dunque, in caso di malattia non avrebbe diritto neanche all’assegno ordinario di invalidità o alla pensione di inabilità assoluta e permanente a svolgere qualsiasi attività lavorativa.
Se la sua carriera professionale dovesse seguire lo stesso andamento, sarà difficile – anzi, impossibile – per lui perfezionare il diritto alla pensione anticipata, per la quale tra il 2016-2018 sono richiesti 42 anni e 10 mesi di contributi, o, in alternativa, 63 anni e 7 mesi di età, 20 anni di contribuzione effettiva e aver maturato un importo pensionistico di almeno 2,8 quello dell’assegno sociale (1.255,86 euro nel 2015).
Matteo, inoltre, non potrebbe andare in pensione di vecchiaia alla stessa età prevista per i lavoratori assicurati prima del 1° gennaio 1996, per mancanza del requisito minimo di pensione maturato, pari almeno a 1,5 volte quello dell’assegno sociale (672,78 euro nel 2015).
L’unica prospettiva è quella di poter accedere alla pensione di vecchiaia, con almeno 5 anni di contribuzione effettiva, a prescindere dall’importo maturato, presumibilmente a 74 anni di età. La legge n. 214/2011 aveva previsto questo pensionamento a 70 anni di età, ma l’INPS ha adeguato anche questo requisito anagrafico all’incremento della speranza di vita (diventati 70 anni e 3 mesi nel 2013-2015 e 70 anni e 7 mesi nel 2016-2018).
Dal 1° gennaio 2019 ci sarà un ulteriore adeguamento legato all’aspettativa di vita. Da questa data seguiranno adeguamenti con cadenza biennale. Non è quindi possibile indicare l’età effettiva del pensionamento.
Con il sistema misto, invece, quelli che avevano anche una sola settimana di contribuzione precedente il 1° gennaio 1996, al compimento dell’età pensionabile – presumibilmente a 70 anni (nel 2016-2018 richiesti 66 anni e 7 mesi di età) – avrebbero percepito il trattamento pensionistico di vecchiaia se in possesso di almeno 20 anni di contribuzione, a prescindere dall’importo maturato, con garanzia del trattamento minimo nel caso in cui non avessero superato determinati limiti reddituali.